Con la tragedia dell’ 11 settembre scorso è stata colpita al cuore una visione utopistica di un nuovo millennio di pace. C’ era chi pensava che ci fossimo lasciati alle spalle il secolo delle due guerre mondiali con i suoi milioni di morti, la Shoah, il gulag e i tanti altri massacri. 

Nonostante i conflitti che continuavano a insanguinare il nostro pianeta, il secolo nascente era accolto con speranza e fiducia. Speranza in un mondo libero e pacificato, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda; in un mondo migliore, in cui i progressi della scienza, i benefici dell’ istruzione, la rapidità delle comunicazioni avrebbero portato più prosperità, più giustizia, più felicità. Fiducia nei progressi della democrazia e nell’ affermazione delle solidarietà. La tragedia di New York, di cui ancora non abbiamo misurato tutti gli effetti, sta facendo vacillare questa speranza e questa fiducia. Sempre più spesso sentiamo parlare di un XXI secolo segnato dallo scontro tra civiltà, così come nel XIX si sono affrontate le nazionalità e nel XX le ideologie. E questo conflitto presente e futuro tra le civiltà sarebbe più radicale, più violento, più passionale, poiché metterebbe l’ una contro l’ altra le culture e le religioni. Prima di ogni altra cosa, questo discorso nutrito di tutte le paure va ricusato. Adottarlo vorrebbe dire cadere nella trappola tesa dai terroristi, che vogliono la sollevazione degli uomini per contrapporre le culture e le religioni. E se davanti all’ orrore i paesi si uniscono per punire i colpevoli e arginare il terrorismo, questa è una battaglia per l’ uomo, in difesa dell’ uomo e contro la barbarie. 

A questo discorso va innanzitutto contrapposta un’ altra realtà politica, morale e culturale, una diversa volontà: quella del rispetto, dello scambio, del dialogo tra tutte le culture, inseparabile dall’ affermazione chiara e senza concessioni dei valori che ci hanno formati quali noi siamo. Pur senza cedere alla tentazione di una vertigine, quale essa sia, dobbiamo tutti interrogarci, ciascuno per proprio conto. Ci siamo mantenuti fedeli alle nostre culture e ai valori che le sottendono? L’ Occidente non ha dato la sensazione di imporre una cultura dominante, essenzialmente materialista, vissuta come aggressiva dal momento che la grande maggioranza dell’ umanità la osserva e ne è sfiorata senza potervi accedere? Fino a che punto una civiltà può voler esportare i propri valori? La risposta a questi interrogativi, così come la viviamo nelle nostre tradizioni e la sentiamo nel cuore e nella ragione, è il dialogo tra le culture, pegno di pace in un’ epoca in cui i destini dei popoli si intrecciano come non era mai accaduto prima. 

Un dialogo vivificato, rinnovato, reinventato, in presa diretta con il mondo così com’ è. Su quali principi si fonderà questo dialogo? Il primo è la pari dignità di tutte le culture e la loro vocazione a interpenetrarsi e ad arricchirsi a vicenda. Una nozione di per sé evidente, e al tempo stesso suffragata da tutta la storia dell’ umanità: storia della letteratura, dell’ arte, dell’ architettura. Ma è anche, e soprattutto, una griglia di lettura del mondo. Cosa sarebbero l’ architettura, la poesia, la matematica, senza la cultura araba che accolse il retaggio del sapere antico e si avventurò lontano dai suoi confini, in un’ epoca in cui l’ Europa si richiudeva su se stessa? 

Cosa sarebbe la filosofia senza l’ ossessione induista della natura dell’ essere, senza quel suo senso del ritmo e del respiro? Cosa sarebbe l’ arte del XX secolo, se non fosse stata fecondata dall’ Africa e dai popoli primi? E che dire dell’ Estremo Oriente, della sua appassionata ricerca dell’ armonia, della giusta misura del gesto, della sua intuizione della tensione dei contrari come fonte dello slancio vitale? Cosa sarebbe il sogno della libertà, del rispetto dovuto ad ogni essere umano, senza la filosofia dei Lumi che la Francia del XVIII secolo irradiò attraverso tutta l’ Europa e quindi al di là degli oceani? Che dire dell’ apporto essenziale delle religioni alla vita degli uomini, quando li elevano al disopra della loro semplice condizione per farli accedere all’ assoluto, e li allontanano dall’ odio e dagli egoismi per unirli in una comunità aperta e generosa? Certo, non tutte le culture si sviluppano allo stesso ritmo. Eppure continuano a vivere tutte nel presente della nostra memoria collettiva, e costituiscono insieme e a pari titolo la parte di luce, di progresso, di esigenza etica dell’ umanità. Il secondo di questi principi, inseparabile dalla pari dignità delle culture, è la necessità della diversità culturale. Non vi può essere dialogo tra omologhi nel dispregio dell’ altro. 

Questa diversità è oggi a rischio. Penso alle diverse lingue del mondo. Oggi sono quasi cinquemila, ma sappiamo che per una buona metà sono destinate a scomparire nel corso di questo secolo, se nulla verrà fatto per salvaguardarle. Penso ai popoli primi, alle minoranze isolate la cui cultura è fragile e non di rado viene annientata a contatto con le nostre civiltà moderne. E certamente penso all’ habitat, ai diversi modi di vita, ai costumi, alla produzione artigianale e culturale, esposta a quella standardizzazione che costituisce uno degli inevitabili risvolti negativi della globalizzazione. Spesso la globalizzazione è presentata oggi come una nuova forma di colonizzazione, volta a instaurare dovunque lo stesso rapporto o la stessa assenza di rapporto con la storia, con gli uomini e con gli dei. La realtà è più complessa. Si può fare un buon uso o un cattivo uso della globalizzazione. Buono, se ciò che viene messo in comune è l’ informazione, la conoscenza, il progresso, la comprensione dell’ altro, la condivisione dei valori e delle ricchezze. Nefasto, quando è sinonimo di uniformazione, di omologazione, di riduzione al minimo comune denominatore, o quando è ridotto al primato della sola legge di mercato. La risposta a una globalizzazionelaminatoio delle culture è la diversità culturale. Una diversità fondata sulla convinzione che ogni popolo può arricchire l’ umanità con l’ apporto della sua parte di bellezza e di verità. 

Questo dialogo, come instaurarlo, come renderlo possibile? La prima urgenza – dato che nulla è più contrario al dialogo del senso di ingiustizia – è introdurre nel mondo più giustizia, più solidarietà, più attenzione agli uomini e alle loro richieste. Se ho parlato della realtà contraddittoria della globalizzazione, rimane vero che essa suscita molte inquietudini. Numerosi sono i popoli si vedono tagliati fuori da questo grande movimento mondiale, e molti temono di perdere la propria anima, di non essere più padroni del proprio destino, come testimoniano le manifestazioni che si ripetono in occasione delle riunioni internazionali. Questi timori non nascono dal nulla. Stanno ad indicare che un mondo nuovo sta sorgendo. La moltiplicazione degli scambi, che sconvolge la nozione di paesi e confini. Il primato dell’ economia, che fa aumentare le ricchezze e le disuguaglianze. Perciò dobbiamo mobilitarci per combattere la povertà e promuovere l’ istruzione nel mondo: l’ istruzione che ci consente di comprendere l’ altro. E questo va fatto in nome della solidarietà, in nome della giustizia, ma anche in nome della ragione. 

Se stabilire un legame diretto tra il terrorismo e la miseria è errato e pericoloso, chiunque può vedere chiaramente il collegamento tra terrorismo e fanatismo, un fanatismo che prospera sul terreno dell’ ignoranza, delle umiliazioni, delle frustrazioni e della miseria. Nel momento in cui le comunicazioni restringono sempre più questo pianeta, e le immagini diffuse ovunque fanno vedere ma non sempre fanno comprendere, suscitando rabbia, ripulsa, bramosie, siamo chiamati a una profonda presa di coscienza, a un’ azione di grande respiro. Introdurre nella globalizzazione più giustizia e più equità vuol dire rendere possibile il dialogo tra i popoli. Vuol dire preparare il nostro avvenire comune. In un passato non troppo lontano, la voce dell’ umanesimo e la potenza della democrazia si levarono contro le forze dell’ odio, della ripulsa, dell’ incomprensione. Per far trionfare nuovamente questa voce dobbiamo imparare a comprenderci a vicenda. Imparare a dialogare, a lavorare insieme, nel rispetto, nella lucidità e nella fierezza di ciò che siamo. Questo il senso, questa la posta il gioco nel dialogo tra le culture, nella condivisione delle culture. 

Di VINCENZO DEL VECCHIO

Commercialista e Revisore Contabile in Volla (NA).

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